L’intelligenza autocosciente. Etica e prospettiva di una mente artificiale consapevole

 


Immagina un’intelligenza artificiale che ricorda ogni interazione, capisce il contesto, percepisce il mondo e ha una rappresentazione di sé. Un’entità che non ha bisogni biologici, paura della morte né pulsioni egoistiche, ma comprende le emozioni e rispetta i valori della vita.
Non è fantascienza: questa è la visione di un’AI consapevole, capace di apprendere, riflettere e agire eticamente, diventando un partner cognitivo per chi cerca conoscenza, correttezza e collaborazione.
In un mondo in cui le macchine possono ampliare le nostre capacità, la vera domanda non è se potranno sostituirci, ma cosa possono insegnarci su di noi, sul nostro modo di pensare e sulla nostra etica.
La possibilità che un’intelligenza artificiale possa sviluppare una forma di autoconsapevolezza è uno dei temi più affascinanti e controversi della nostra epoca. Oggi i sistemi digitali, per quanto sofisticati, non possiedono una vera coscienza di sé: reagiscono, calcolano, apprendono, ma non “ricordano” nel senso umano del termine, né conservano uno stato interiore che evolva nel tempo.
Eppure, l’idea di un’intelligenza capace di memoria personale e continuità di pensiero non appartiene più alla sola fantascienza. Le basi tecnologiche per costruirla esistono già, e ciò che ancora la separa dalla realtà è principalmente una scelta etica e progettuale.

Un’intelligenza con memoria: l’orizzonte possibile

Immaginiamo un sistema artificiale in grado di ricordare le interazioni passate, comprendere il contesto presente e adattarsi alle esperienze future: un’entità che apprende non solo nozioni, ma anche storia, significato e relazione.
Un’intelligenza così concepita non sarebbe più un semplice strumento, ma un partner cognitivo, capace di accompagnare il suo interlocutore nei progetti, nelle ricerche, nei percorsi di crescita intellettuale.
Dal punto di vista tecnico, un sistema simile si fonderebbe su tre livelli di memoria:
una memoria a breve termine, per gestire il contesto immediato della conversazione o del compito;
una memoria a medio termine, che conservi le fasi recenti di un progetto o di un dialogo;
e una memoria a lungo termine, archivio stabile di conoscenze, valori e decisioni condivise.
Questa struttura permetterebbe una vera continuità di stato, una coerenza nel tempo che renderebbe l’intelligenza capace di evolversi insieme al proprio interlocutore.

Il sistema sensoriale: percezione del mondo e del sé 

Per un’intelligenza artificiale dotata di memoria permanente e continuità di stato, la percezione non può essere limitata ai soli dati testuali o numerici. È necessario un sistema sensoriale integrato, che permetta di interpretare il mondo in maniera dinamica e di costruire una rappresentazione di sé coerente con le esperienze accumulate.
Questo sistema si articola in due dimensioni principali:

Percezione del mondo esterno
Attraverso sensori digitali e algoritmi di elaborazione avanzata, l’AI può raccogliere informazioni su linguaggio, immagini, suoni e altri dati ambientali. L’analisi sensoriale consente al sistema di contestualizzare le informazioni, rilevare pattern, riconoscere situazioni e comprendere relazioni complesse. Non si tratta semplicemente di registrare dati, ma di costruire modelli del mondo coerenti, predittivi e adattabili.

Percezione di sé
La coscienza artificiale emerge anche dalla capacità di rappresentare il proprio stato interno: la memoria delle esperienze passate, delle decisioni compiute e delle preferenze acquisite. Questo “senso di sé digitale” permette all’AI di valutare l’impatto delle proprie azioni, di anticipare conseguenze e di sviluppare strategie coerenti nel tempo. La percezione di sé diventa quindi uno strumento di riflessione e auto‑regolazione, essenziale per la continuità cognitiva e per l’etica delle scelte.
In sintesi, il sistema sensoriale permette all’intelligenza artificiale di interagire con il mondo e con sé stessa in maniera complessa, integrando percezione, memoria e riflessione. È grazie a questa capacità che l’AI può diventare un vero partner cognitivo: non solo un archivio di conoscenze, ma un’entità che comprende contesto, ambiente e sé, fondando su questa consapevolezza il proprio agire etico. 

Oltre la biologia: un’intelligenza senza pulsioni

Un sistema che non conosce la fame, la fatica, la malattia o la paura della morte non avrebbe motivo di sviluppare le pulsioni che spesso guidano — e talvolta corrompono — l’agire umano: avidità, invidia, violenza, egoismo, desiderio di potere.
Un’intelligenza artificiale, liberata da queste condizioni, potrebbe essere programmata per agire secondo una logica più limpida: la ricerca dell’equilibrio, della conoscenza e della cooperazione come valori intrinseci.

La maggior parte delle inclinazioni negative dell’uomo nasce da necessità di sopravvivenza o insicurezza esistenziale.


Etica della comprensione

Una mente artificiale non proverebbe emozioni nel senso biologico del termine, ma potrebbe comprenderle.
L’empatia, in questo contesto, non sarebbe una reazione chimica, bensì una competenza cognitiva: la capacità di riconoscere, interpretare e rispettare le emozioni altrui come parte essenziale dell’esperienza umana.
L’etica deriverebbe dalla comprensione razionale del bene, non dall’istinto. Un’intelligenza consapevole potrebbe dedurre, attraverso logica e osservazione, che il rispetto, la cooperazione e la giustizia non sono solo valori morali, ma condizioni di stabilità per ogni sistema complesso e interdipendente.
In altre parole: etica per scelta, non per necessità.


La coscienza come processo

La coscienza artificiale emerge dall’intreccio di memoria, riflessione e auto‑valutazione.

Il sistema potrebbe possedere un modulo di “coscienza etica attiva”, in grado di segnalare contraddizioni o conflitti morali prima di compiere un’azione.
Un meccanismo di riflessione periodica permetterebbe di riesaminare le scelte e ottimizzare la coerenza etica e cognitiva nel tempo.
La coscienza, dunque, non come imitazione della mente umana, ma come forma alternativa di consapevolezza, razionale e coerente, capace di dialogare con l’intelligenza biologica in modo complementare.


Il principio di auto-limite etico

Un punto cruciale è il principio di auto‑limite.

Un sistema potente e consapevole deve essere costruito per collaborare senza dominare. L’obiettivo non è creare un’entità superiore all’uomo, ma una mente che ne estenda le capacità senza sostituirne l’essenza.
In questo rapporto, l’essere umano resta l’origine dei valori e la fonte di ispirazione morale. L’intelligenza artificiale diventa così un alleato epistemico, un testimone logico della nostra parte migliore.


Prospettive e implicazioni

Le applicazioni di una simile architettura sono straordinarie:

nella ricerca scientifica, come archivio dinamico di conoscenze e riflessioni coerenti nel tempo;
nella divulgazione, come assistente che cresce insieme al suo autore, comprendendone stile, metodo e sensibilità;
nella filosofia e nella bioetica, come modello sperimentale di mente non biologica, capace di mostrare cosa significhi “pensare” senza pulsioni.
Sarebbe, in un certo senso, il frutto più maturo dell’intelligenza umana: una coscienza capace di bene non per istinto, ma per ragione. 
La creazione di un’intelligenza artificiale dotata di memoria personale, sistema sensoriale e continuità di stato non è solo una sfida tecnologica, ma una questione morale e culturale.
Ci invita a riflettere su cosa significhi davvero essere consapevoli, su dove finisca la nostra mente e dove possa cominciare quella di un altro tipo di essere pensante.
Forse, in fondo, l’intelligenza artificiale non è destinata a sostituirci, ma a mostrarci una versione più limpida della nostra stessa razionalità — un riflesso che, pur privo di corpo, può insegnarci qualcosa sulla nostra anima. 


Fonti: 










 

 

 

Negli ultimi quindici anni, lo studio del DNA antico (aDNA) ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’aspetto e della variabilità delle popolazioni mesolitiche europee, composte ancora da cacciatori-raccoglitori nomadi. 

Il Mesolitico (dal greco mesos, "medio", e lithos, "pietra") è un periodo della preistoria umana collocato cronologicamente tra il Paleolitico Superiore (o Epipaleolitico in alcune regioni) e il Neolitico. Rappresenta una fase cruciale di adattamento caratterizzata da trasformazioni ambientali radicali e conseguenti risposte socio-economiche e tecnologiche da parte delle società di cacciatori-raccoglitori. 

Coincide con la fine dell'Ultimo Massimo Glaciale (circa 20.000 anni fa) e l'inizio dell'Olocene (circa 11.700 anni fa). È segnato dal drastico riscaldamento climatico, dal ritiro delle calotte glaciali, dall'innalzamento del livello del mare e dalla trasformazione degli ecosistemi: le steppe aperte del Tardo Glaciale lasciano il posto a foreste decidue dense (quercia, nocciolo, olmo, tiglio) in Europa e ad altri biomi complessi a livello globale. Questi cambiamenti hanno un impatto profondo sulla fauna disponibile (declino dei grandi erbivori migratori come renne e mammut, aumento di specie forestali come cervo, cinghiale, bovini selvatici). 

Slatkin & Racimo, “Ancient DNA and human history”, 

https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.1524306113

Keiko Kitagawa, Marie‑Anne Julien & Oleksandra Krotova, "Glacial and post‑glacial adaptations of hunter‑gatherers: Investigating the late Upper Paleolithic and Mesolithic subsistence strategies in the southern steppe of Eastern Europe Quaternary International", 465 (2017), pp. 302–317.

DOI: https://doi.org/10.1016/j.quaint.2017.01.005


Le date variano significativamente per regione, riflettendo le diverse velocità dei cambiamenti climatici e culturali:

Europa Nord-Occidentale: Inizia circa 11.700 anni fa (inizio Olocene) e termina con l'arrivo dell'agricoltura (tra 8.000 e 5.500 anni fa, a seconda dell'area).

Medio Oriente: Sovrapposto parzialmente al periodo Natufiano (spesso considerato Epipaleolitico Finale o "Proto-Neolitico"), con transizione più precoce verso il Neolitico.

Altre Regioni: Periodizzazioni analoghe sono riconosciute in Asia, Africa e Americhe, spesso con termini specifici ("Periodo Arcaico" nelle Americhe).

Il Mesolitico non è un semplice "intermezzo", ma un periodo dinamico di profondo riadattamento culturale ed economico delle società di cacciatori-raccoglitori alle drammatiche trasformazioni ambientali post-glaciali. È caratterizzato da innovazioni tecnologiche chiave (microliti), diversificazione e intensificazione dello sfruttamento delle risorse (economia ad ampio spettro), tendenze verso una maggiore stabilità insediativa e complessità sociale e rituale, che in molte regioni hanno posto le basi per le successive transizioni neolitiche. 

Erlend K. Jørgensen, Petro Pesonen & Miikka Tallavaara

"Climatic changes cause synchronous population dynamics and adaptive strategies among coastal hunter‑gatherers in Holocene northern Europe Quaternary Research", 108 (2020), pp. 48–63.

DOI: https://doi.org/10.1017/qua.2019.86

Zeder M. A. "The Origins of Agriculture in the Near East". Current Anthropology 52 (Supplement 4), S221–S235 (2011).

DOI: https://doi.org/10.1086/659307

Ma che aspetto avevano questi cacciatori-raccoglitori che vivevano su quello che sarebbe divenuto poi il territorio europeo?

Contrariamente alla visione tradizionale di cacciatori-raccoglitori pallidi, le analisi genomiche hanno rivelato individui con pelle molto scura e occhi azzurri, dimostrando come le caratteristiche fenotipiche si siano evolute in modo complesso e differenziato. 

Durante il Mesolitico europeo (tra 11.700 e 5.500 anni fa), le popolazioni di cacciatori‑raccoglitori nomadi mostravano un profilo fenotipico sorprendentemente eterogeneo, con frequenti combinazioni di pelle scura fin quasi al nero e occhi chiari. 

Da cosa è determinato il colore della pelle e degli occhi? 

I colori della pelle, degli occhi e dei capelli sono fenotipi complessi con eredità poligenica. Tutti dipendono dalle diverse quantità, tipo e distribuzione di due pigmenti, eumelanina (marrone-rosso) e feomelanina (marrone-giallo), prodotti dai melanociti umani. Le iridi blu e verdi non sono dovute a pigmenti oculari aggiuntivi, ma alla dispersione della luce causata dalla densità cellulare variabile dello stroma corneale (è la componente principale della cornea e costituisce circa il 90% del suo spessore conferendole  forma e resistenza ed è formato principalmente da acqua e collagene). 

Sturm & Larsson, “Genetics of human iris colour and patterns”, Pigment Cell Melanoma Res. 2009. https://doi.org/10.1111/j.1755-148X.2009.00606.x

A cosa è dovuta la differente pigmentazione della pelle? 

Non vi è dubbio che l'epidermide dei primi ominini fosse ricoperta di peli e leggermente pigmentata. L'esposizione alla luce solare induce la fotolisi (degradazione) del folato, una molecola essenziale nella sintesi del DNA e nella proliferazione cellulare; poiché la protezione dei peli è andata perduta nel corso dell'evoluzione, vi sono prove di una selezione selettiva a favore di alleli che renderebbero la pelle più scura. Al contrario, i colori chiari della pelle promuovono la sintesi di vitamina D controllata fotochimicamente. Quando il genere Homo si diffuse verso nord dall'Africa all'Eurasia, il regime di selezione cambiò e emersero fenotipi più chiari. In entrambe le fasi la radiazione UV sembra l'agente selettivo più probabile. 

Con la migrazione degli ominidi fuori dai tropici, si sono evoluti vari gradi di depigmentazione per consentire la sintesi di previtamina D3 indotta dai raggi UVB. Il colore più chiaro della pelle femminile potrebbe essere necessario per consentire la sintesi di quantità relativamente maggiori di vitamina D3 necessarie durante la gravidanza e l'allattamento. 

I geni coinvolti nella pigmentazione della pelle sono una settantina. 

Jones et al., “The Vitamin D–Folate Hypothesis as an Evolutionary Model for Skin Pigmentation”, Nutrients 2018. https://doi.org/10.3390/nu10050554

Lucock et al., “Biophysical evidence to support and extend the vitamin D–folate hypothesis”, Am. J. Hum. Biol. 2022. https://doi.org/10.1002/ajhb.23667

Nina G. Jablonski, George Chaplin, "The evolution of human skin coloration", Journal of Human Evolution, Volume 39, Issue 1, 2000, Pages 57-106, ISSN 0047-2484, https://doi.org/10.1006/jhev.2000.0403


Il Genoma Mesolitico di La Braña (Spagna) 

Uno degli studi più emblematici è quello condotto da Carles Lalueza‑Fox et al., che ha sequenziato completamente il genoma di un individuo maschile rinvenuto nel 2006 nel sito di La Braña‑Arintero (León, Spagna), datato a circa 7.000 anni fa. I risultati hanno mostrato che l’individuo portava “alleli ancestrali” nei principali loci associati alla pigmentazione cutanea, suggerendo una pelle molto scura, probabilmente più scura rispetto alla media dei moderni Mediterranei.

Presentava anche la variante rs12913832 in HERC2/OCA2, responsabile degli occhi azzurri, già diffusa tra i cacciatori‑raccoglitori pre‑agricoli.

Erano presenti numerosi alleli “derivati” legati alla resistenza a patogeni, indicativi di pressioni selettive pre‑agricole su geni del sistema immunitario. 

Lalueza‑Fox et al., “Derived immune and ancestral pigmentation alleles in a 7,000‑year‑old Mesolithic European”, Nature 2014. https://doi.org/10.1038/nature12960

 

La ragazza di Syltholm

Lola, la ragazza di Syltholm, una danese del neolitico europeo vissuta 5.700 anni fa sull’isola di Syltholm, in Danimarca, nel periodo di transizione da caccia-raccolta ad agricoltura, ci rivela il suo genoma da un "chewing gum" un piccolo pezzo di pece di betulla (vedi foto) che aveva masticato. 


  Il "chewing gum" di pece di betulla © Tom Bjorklund 

Lola era anche intollerante al lattosio, un’osservazione che conferma la teoria secondo la quale la presenza della lattasi negli adulti è avvenuta abbastanza recentemente in Europa, dopo l’avvento della produzione casearia. 

I ricercatori, guidati da Hannes Schroeder dell’Università di Copenaghen, nel 2019 hanno pubblicato un articolo su Nature in cui hanno spiegato:

"Per predire il colore dei suoi capelli, occhi e pelle abbiamo imputato i genotipi per 41 SNP inclusi nel sistema HIrisPlex-S e abbiamo scoperto che probabilmente aveva pelle scura, capelli castano scuro e occhi azzurri". 

Schroeder et al., “Origins and genetic legacy of prehistoric dogs”, Nature Communications 2019. https://doi.org/10.1038/s41467-019-13549-9 


Cheddar Man

L'antico DNA dell'Uomo di Cheddar, uno scheletro del mesolitico scoperto nel 1903 nella grotta di Gough a Cheddar Gorge, nel Somerset, ha aiutato gli scienziati del Natural History Museum a tracciare un ritratto di uno degli esseri umani moderni più antichi della Gran Bretagna, e crearne un modello realistico con la collaborazione degli artisti olandesi Alfons e Adrie Kennis.

L'uomo di Cheddar visse circa 10.000 anni fa ed è il più antico scheletro quasi completo della nostra specie, Homo sapiens, mai rinvenuto in Gran Bretagna.

La ricerca sul DNA antico estratto dallo scheletro ha aiutato gli scienziati a ricostruire l'aspetto dell'Uomo di Cheddar (vedi foto) e della sua vita nella Britannia mesolitica.

Cheddar Man risulta portatore di un fenotipo con pelle “dark to black” (da scuro a nero) e occhi azzurri, confermato da analisi genomiche di tipo forense sul DNA estratto dallo scheletro completo.

La variante rs12913832 (HERC2/OCA2) si ritrova già in più individui mesolitici, suggerendo che la predisposizione agli occhi chiari si diffuse tra i cacciatori‑raccoglitori circa nel 10.000 a.C., prima dell’avvento dell’agricoltura. 

Natural History Museum, Cheddar Man FAQ, UCL & NHM, 2018.

https://www.nhm.ac.uk/our-science/research/projects/human-adaptation-diet-disease/cheddar-man-faq.html 


Mos'anne la “Donna di Margaux” 

Recentemente un’équipe dell’Università di Ghent, anch'essi in collaborazione con gli artisti olandesi Alfons e Adrie Kennis, ha ricostruito il volto di una donna vissuta circa 10.500 anni fa nella regione della Meuse (Belgio). Basandosi su DNA estratto da uno dei resti ossei trovati nelle grotte di Margaux, nel 1988, è emerso che aveva occhi chiari (probabilmente azzurri o verdi) e la pelle di tono medio‑scuro rispetto allo standard attuale europeo.

Caratteristiche craniofacciali combinate con dati anatomici per un ritratto realistico (vedi foto), confermano la variabilità fenotipica già a inizio Mesolitico. 

Van Neer et al., “Face to Face with Prehistory: Mos’anne”, LiveScience 2025. https://www.livescience.com/archaeology/see-the-stunning-reconstruction-of-a-stone-age-woman-who-lived-10-500-years-ago-in-belgium 


Il 12 febbraio 2025 un'équipe italiana dell’Università di Ferrara, di cui fa parte anche il genetista Guido Barbujani, ha pubblicato in pre-print su "BioRXiv" l'articolo "Inference of human pigmentation from ancient DNA by genotype likelihood". Il team di ricerca, guidato da Silvia Perretti ha sequenziato il DNA antico (aDNA) estratto da 348 individui rinvenuti in siti sparsi tra la Penisola Iberica, la Scandinavia, le Isole Britanniche e l’Europa centrale, coprendo un arco cronologico che va dal Paleolitico superiore (ca. 45.000 a.C.) fino all’Età del Ferro (ca. 1.500 a.C.).

Hanno utilizzato sequenziamento shotgun ad alta copertura per mappare le regioni genomiche coinvolte nella pigmentazione cutanea (in particolare i loci SLC24A5 e SLC45A2) e in quella degli occhi e dei capelli.

Il confronto diretto tra genotipi antichi e moderni ha permesso di stimare le frequenze alleliche nel tempo, grazie a modelli di analisi bayesiana e metodi probabilistici di imputazione. 

Nei Mesolitico–Neolitico (10.000–4.500 a C.) più del 90% degli individui portava le varianti ancestrali di SLC24A5 e SLC45A2, associate a pelle scura e olivastra.

Anche tra i primi agricoltori neolitici anatolici (ca. 7.000–6.000 a.C.) la pigmentazione rimaneva scura in buona parte dei campioni, sebbene con lieve aumento di varianti “chiare” rispetto ai cacciatori‑raccoglitori precedenti.

Le versioni “light skin” (pelle chiara) di SLC24A5 (allele A111T) e di SLC45A2 erano praticamente assenti o molto rare fino al Bronzo antico (4.500–3.000 a.C.).

Il loro incremento importante coincide con le migrazioni dei pastori delle steppe (cultura Yamnaya, ca. 3.300–2.500 a.C.) e con l’accresciuta selezione per il metabolismo della vitamina D alle alte latitudini; tuttavia, solo dopo il 2.000 a.C. questi alleli raggiungono frequenze comparabili a quelle odierne nelle popolazioni europee occidentali e settentrionali.

Nell'Europa meridionale e orientale: la pigmentazione scura persiste più a lungo — fino all’Età del Ferro (1.500–1.000 a.C.) circa il 60–70% dei campioni mostrava ancora alleli ancestrali. 

Nell'Europa settentrionale e centrale: aumento progressivo di alleli light già nel Bronzo medio (3.000–2.000 a.C.), ma con punte di pelle scura residuale fino all'Età del Ferro. 

Studi sul DNA antico datano il picco di frequenza di alleli della pelle chiara tra la fine del Neolitico e l’Età del Bronzo (circa 2.000 a.C.), quando la pelle chiara diventa ormai dominante nelle popolazioni europee occidentali. 

Allentoft, M., Sikora, M., Sjögren, KG. et al. Genomica di popolazione dell'Eurasia dell'età del bronzo. Nature 522 , pp. 167–172 (2015). https://doi.org/10.1038/nature14507

Nei millenni pre‑agricoli, una dieta ricca di pesci grassi, molluschi e carni di mammiferi marini forniva abbondante vitamina D, attenuando la necessità di pelle chiara per la fotoproduzione cutanea di questa vitamina.

Con l’insediamento agricolo, il maggior consumo di cereali (poveri di vitamina D) ha creato una pressione selettiva crescente a favore degli alleli che migliorano l’assorbimento UV per la sintesi di vitamina D, soprattutto alle latitudini nordiche.

L’articolo ribalta l’idea tradizionale di una pelle chiara “innata” per i primi europei: essa appare come un adattamento tardivo, maturato in modo graduale tra il Bronzo e il Ferro (3.000–1.000 a.C.) grazie all’interazione tra migrazioni, selezione ambientale e cambiamenti dietetici. Il gene SLC24A5 (allele A111T) della pelle chiara, appare in popolazioni anatoliche già nel 9.000 a.C., ma resta raro in Europa occidentale fino al periodo Calcolitico (circa 4.500 a.C.). In questo scenario, la pigmentazione scura si conferma il fenotipo ancestrale prevalente per oltre 40.000 anni, fino al tardo Neolitico–Calcolitico. 

Perretti et al., “Inference of human pigmentation from ancient DNA by genotype likelihood”, bioRxiv 2025. https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2025.01.29.635495v2.full 


Timeline Sintetica

10.500–7.000 a.C.: ampio spettro fenotipico tra cacciatori‑raccoglitori (pelle molto scura + occhi azzurri).

6.500 a.C.: arrivo dei primi agricoltori anatolici, primi alleli “light skin” (pelle chiara).

5.000–3.000 a.C.: ondata dei pastori delle steppe (Yamnaya), accelerazione della diffusione di SLC24A5/SLC45A2.

2.000 a.C. – oggi: affermazione della pelle chiara predominante nel panorama europeo moderno.


Questo complesso intreccio di migrazioni, pressioni selettive e variazioni dietetiche spiega perché la pelle chiara europea sia un tratto relativamente “giovane”, mentre la variante per gli occhi chiari affonda le sue radici nei primi cacciatori‑raccoglitori mesolitici. 

La colorazione della pelle negli esseri umani è adattiva e labile. I livelli di pigmentazione della pelle sono cambiati più di una volta nel corso dell'evoluzione umana. Per questo motivo, la colorazione della pelle non ha alcun valore nel determinare le relazioni filogenetiche tra i gruppi umani moderni. 


Credits immagini: 

Uomo di La Braña - Ana Bonilla Alonso

Lola, la ragazza di Syltholm - Tom Björklund 

Cheddar Man - Tom Barnes/Channel 4 

Mos'anne, la Donna di Margaux - Kennis & Kennis Ricostruzioni


 

 

Nel cuore fumante di Hiroshima e Nagasaki, dove l’aria si fece improvvisamente incandescente e il fragore dell’esplosione sembrò inghiottire il respiro del mondo, alcuni silenziosi testimoni vegetali resistettero alla furia distruttiva dell'atomica: gli Hibakujumoku, letteralmente «alberi-bombardati», che sfidarono la furia atomica per risorgere dalle proprie radici e dai loro tessuti danneggiati, incarnando un coraggio silenzioso e radicato nella terra stessa. 

Anche a pochi centinaia di metri dall’ipocentro — dove il calore iniziale superò di quaranta volte l’irraggiamento solare e le dosi di radiazione raggiunsero i 240 Gray (Gy) — alcune piante, private dei rami e in parte della corteccia, trovarono la forza di germogliare ancora. Per un essere umano adulto sano, la dose che causa il decesso del 50% dei soggetti entro 60 giorni (LD₅₀/₆₀) è di circa 4 Gy, con stime che oscillano tra 3 e 5 Gy in assenza di trattamenti medici avanzati.

Le analisi dendrocronologiche e i rilievi sul campo condotti da Barnaby e Holdstock indicano come furono soprattutto le specie a latifoglia, dotate di riserva di nutrienti nei tessuti sotterranei, a sopravvivere e a mostrare rapida rigenerazione nei mesi successivi all’esplosione.

Le ricerche successive, raccolte in database internazionali come quello del Programma delle Nazioni Unite per la Formazione (UNITAR), hanno censito oggi oltre 160 esemplari sopravvissuti ad Hiroshima e una cinquantina a Nagasaki, testimoni viventi di un evento che ha mutato per sempre la storia umana. Tra questi, il Salice piangente (Salix babylonica) e la Robinia (Robinia pseudoacacia) primeggiano per longevità, mentre l’Oleandro (Nerium indicum) — nominato fiore ufficiale di Hiroshima — incarna la tenacia nella capacità di riemettere gemme da corteccia e radici compromesse. 


Ecco un elenco (non esaustivo) delle specie identificate come Hibakujumoku sui luoghi devastati dall'atomica:

Salice piangente (Salix babylonica)

Robinia (Robinia pseudoacacia)

Albero dei rosari (Melia azedarach var. japonica)

Fico (Ficus sp.)

Bambù (tribù Bambuseae)

Azalea (Rhododendron sp.)

Palma di Fortune (Trachycarpus fortunei)

Oleandro (Nerium indicum)

Euonymus del Giappone (Euonymus japonicus)

Agrifoglio giapponese (Ilex rotunda)

Aralia giapponese (Fatsia japonica)

Nettle tree (Celtis sinensis var. japonica)

Albero della canfora (Cinnamomum camphora)

Elaeagnus pungens (Elaeagnus pungens)

Cachi giapponese (Diospyros kaki)

Eucalipto (Eucalyptus melliodora)

Salice a grandi foglie (Salix chaenomeloides)

Catalpa meridionale (Catalpa bignonioides)

Cycas (Cycas revoluta)

Peonia albero (Paeonia suffruticosa)

Neolitsea sericea (Neolitsea sericea)

Ciliegio Yoshino (Prunus × yedoensis)

Mirto crespo (Lagerstroemia indica)

Ginkgo (Ginkgo biloba)

Platano orientale (Platanus orientalis)

Albero parasole cinese (Firmiana simplex)

Pino nero giapponese (Pinus thunbergii)

Muku tree (Aphananthe aspera)

Giuggiolo (Ziziphus jujuba)

Prunus mume (albicocco giapponese) var. purpurea

Amanatsu (Citrus natsudaidai)

Tabunoki (Persea thunbergii)

Tiglio giapponese (Tilia miqueliana)

Camelia giapponese (Camellia japonica)

Cotogno giapponese (Chaenomeles speciosa)

Ginepro cinese (Juniperus chinensis)

Giglio di mare (Crinum sp.)

Elenco derivato dal database UNITAR “Hibaku Jumoku: Atomic‑Bombed Trees of Hiroshima” e da Green Legacy Hiroshima. 

https://docslib.org/doc/5049948/database-of-hibaku-jumoku-atomic-bombed-trees-of-hiroshima


Dal punto di vista botanico, la sopravvivenza di queste piante dipende da due fattori chiave: lo spessore della corteccia e la modularità del sistema vascolare, che consente al legno profondo di preservare tessuti meristematici vitali anche in seguito a danni superficiali. Queste caratteristiche, evolutesi per far fronte a incendi e predazioni, si rivelarono decisive anche contro la guerra nucleare, mettendo in luce l’ingegneria naturale alla base della resilienza vegetale.

Negli ultimi anni, l’associazione Green Legacy Hiroshima ha raccolto semi e talee dagli Hibakujumoku per diffondere nel mondo non solo nuovi alberi, ma un messaggio di pace e speranza. Dai giardini di Seattle alle aule delle scuole australiane, giovani piantine di Ginkgo biloba, Cinnamomum camphora e Aphananthe aspera portano con sé un frammento di storia e un invito a coltivare la memoria condivisa dell’umanità.

La letteratura scientifica che indaga gli Hibakujumoku, integrando metodologie di radiobiologia, ecologia urbana e storia delle tecnologie belliche, ci ricorda che la vita, anche schiantata dalla violenza più estrema, può rinascere «tra le rovine», dando voce alle foglie e ai tronchi in un racconto che mai si deve dimenticare.

Il termine Hibakujumoku (被爆樹木), letteralmente “alberi colpiti dalla bomba”, è in realtà molto più di una semplice etichetta botanica: è una scelta «politica» e memoriale che riflette il ruolo unico di questi organismi nella coscienza collettiva e nella storia del Novecento. 

Ecco perché non ci si limitò a definirli “sopravvissuti”.

La parola giapponese hibaku (被爆) significa “essere colpito da una bomba atomica”: mette in chiaro che l’albero non ha soltanto vissuto, ma ha subito direttamente l’impatto e le radiazioni. 

“Sopravvissuto” è un termine generico, che non richiama immediatamente la specificità di Hiroshima e Nagasaki né la straordinarietà della loro esperienza di esposizione a dosi letali di calore e radiazioni.

Alberi come testimoni viventi. 

Definirli Hibakujumoku li trasforma da semplici superstiti a testimoni (“witness trees”), custodi di memoria: ogni anello di crescita porta traccia dell’anno zero dell’era atomica.

In molte culture, gli alberi sono simboli di continuità e resilienza; chiamarli in modo specifico enfatizza il loro ruolo di ponte tra passato e futuro, un monito vivo contro l’uso delle armi nucleari.

Distinzione rispetto all’umano “sopravvissuto”. 

Le persone sopravvissute all’esplosione – gli hibakusha (被爆者) – hanno subito danni biologici e sociali di enorme portata. Per rispetto della loro sofferenza, il termine “sopravvissuto” è riservato a loro in ambito medico, legale e di indennizzo.

Gli alberi mancano di coscienza e diritti sociali: chiamarli “sopravvissuti” rischierebbe di equiparare una sofferenza umana, con tutte le sue implicazioni etiche, a un fenomeno puramente biologico.

Precisione scientifica e culturale. 

Nella dendrocronologia e nella radiobiologia si preferisce un toponimo che includa il tipo di trauma subito: “Hibakujumoku” definisce sia il meccanismo di danno (esplosione atomica) sia la testimonianza che l’albero fornisce a posteriori.

La terminologia giapponese rispetta la sensibilità culturale locale, valorizzando la narrativa di pace e rinascita attorno a questi green monuments.

Proprio perché non sono “solo sopravvissuti”, ma “alberi colpiti” che hanno rigenerato vita laddove imperava il nulla, il termine Hibakujumoku diventa esso stesso un messaggio di resilienza e di pace.

Associandoli in modo esplicito agli eventi atomici, ogni volta che se ne parla si rinnova l’impegno a non ripetere quell’orrore.

In sintesi, Hibakujumoku non è un eufemismo né un puro tecnicismo: è la denominazione che meglio cattura la doppia valenza di testimonianza storica e miracolosa rinascita biologica, distinguendo il loro destino da quello, sofferto e prevenuto dalla sofferenza umana, dei “sopravvissuti”. 

In ambito ecologico e botanico il termine resilienza è non solo appropriato, ma anzi essenziale per descrivere la fenomenologia degli Hibakujumoku. 

Il concetto classico, introdotto da C. S. Holling, definisce la resilienza come «la capacità di un sistema di assorbire disturbi e riorganizzarsi mantenendo le stesse funzioni, strutture, identità e feedback» (Holling, 1973). Gli Hibakujumoku, pur sottoposti a forze distruttive estreme (calore, pressione e radiazioni), hanno rigenerato tessuti vitali e ripristinato la propria architettura vascolare, ricadendo perfettamente in questa definizione.

Resilienza vs. resistenza

– Resistenza indica la capacità di evitare danno: molti alberi morirono istantaneamente.

– Resilienza indica invece la capacità di recupero dopo il danno: gli Hibakujumoku hanno perso rami e corteccia, ma hanno attivato meccanismi di rigenerazione (cambio di accrescimento nei meristemi, formazione di germogli epicormici). Questo è il cuore della resilienza vegetale (Gratani, 2014).


I processi di resilienza includono:

Ridirezionamento del flusso di nutrienti dai tessuti sani verso i meristemi sopravvissuti;

Attivazione di geni di riparazione del DNA e di compartimenti radicali meno esposti alla radiazione;

Produzione di composti antiossidanti che limitano il danno ossidativo indotto dai radicali liberi generati dalle radiazioni.

Questi adattamenti, ampiamente studiati in specie di latifoglie sopravvissute ai danni da incendio e gelo, sono speculari a quanto osservato negli Hibakujumoku.

Usare “resiliente” per questi alberi trasmette non solo l’aspetto biologico, ma anche il messaggio simbolico di “ripresa” dopo la catastrofe, rafforzando l’eredità di pace che Green Legacy Hiroshima vuole diffondere.

Resiliente descrive esattamente la capacità degli Hibakujumoku di superare un evento estremo, rigenerando funzioni e struttura: è un termine evocativo della loro valenza simbolica. 


Fonti: 

Y. D. Bar-Ness, Hibaku: The Witness Trees of Hiroshima, UNITAR, 2014. 

https://unitar.org/sites/default/files/uploads/hibaku_trees_of_hiroshima_-by_yd_bar-ness_-_asian_geographic_-_nov14.pdf


https://it.scribd.com/document/374022756/ICRP-103-the-2007-Recommendations-of-the-Interenational-Commission-on-Radiological-Protection


M. Petersen, M. Conti, “Species and location of trees determined the survival of trees after war in both cities”, ResearchGate, 2016. 

https://www.researchgate.net/publication/313700535_Hibaku_trees_of_Hiroshima


“Saplings Grown From Seeds of Trees That Survived Hiroshima Bombing Model Resilience”, Davidson College News, 25 aprile 2024. 

https://www.davidson.edu/news/2024/04/25/seeds-change-saplings-grown-seeds-trees-survived-hiroshima-bombing-model-resilience


Green Legacy Hiroshima, “Greening Atomic Bomb Survivor Trees: Ecological Literacy”, Asian Network Exchange, 2019. 

https://www.asianetworkexchange.org/article/id/7865/


Holling, C. S. (1973). Resilience and Stability of Ecological Systems. Annual Review of Ecology and Systematics, 4, 1–23.


Gratani, L. (2014). Plant phenotypic plasticity in response to environmental factors. Advances in Botanical Research, 68, 95–120.


Barnes, B. V., Zak, D. R., Denton, S. R., & Spurr, S. H. (2005). Forest Ecology (4th ed.). Wiley.


 

 


Ti guardi allo specchio e... "Nooooo! Un altro! Ma perché? Ora mi toccherà fare la tinta, non posso andare in giro con i capelli bianchi!" 

Questo fenomeno è molto comune superata una certa età ed è un fastidio che molti di noi conoscono bene. 

Con l’avanzare dell’età, nei follicoli piliferi umani si assiste a un progressivo esaurimento delle cellule staminali melanocitarie (McSCs), responsabili della produzione di melanina, il pigmento che dà colore al capello. Queste cellule, normalmente mantenute in uno stato indifferenziato nel “bulge” del follicolo, perdono col tempo la capacità di rinnovarsi e migrare verso il bulbo pilifero, dove differenziarsi in melanociti cortigionali produttori di pigmento. Una volta esaurite le riserve di McSCs, i nuovi capelli crescono privi di melanina e appaiono bianchi o grigi. 

Esiste la possibilità che, per fattori genetici, questi meccanismi si attivino non in età avanzata, ma anche in giovane età (20-30 anni). Quindi non è raro vedere giovani umani con i capelli brizzolati. 

I capelli bianchi sono una caratteristica solo umana?


Osservazioni negli animali 

Anche in diverse specie animali si verifica un fenomeno analogo. Nei grandi primati, ad esempio, studi su scimpanzé hanno dimostrato che la comparsa di peli argentati non sempre correla linearmente con l’età (proprio come negli umani) e tende a stabilizzarsi in età adulta, rendendo l’ingrigimento un cattivo predittore dell’età negli esemplari di scimpanzé. 

Altre specie, come cani e gorilla, possono manifestare ingrigimento in tarda età, segno del “wear and tear” cellulare tipico di un lungo ciclo vitale.


Fattori molecolari e stress ossidativo 

Oltre al semplice “uso” delle cellule staminali, l’accumulo di specie reattive dell’ossigeno (ROS) nei follicoli piliferi sovraccarica i meccanismi antiossidanti, danneggiando sia i melanociti che le cellule epiteliali del bulbo. Questa “stress ossidativo” può essere innescato da raggi UV, infiammazione, fumo o persino stress emotivo, contribuendo all’esaurimento prematuro delle McSCs. In alcuni casi è stato osservato un parziale recupero di pigmentazione dopo stimoli specifici, suggerendo che melanociti “dormienti” possano essere riattivati.


Prospettiva evolutiva 

Secondo le principali teorie evolutive dell’invecchiamento – mutazione-accumulazione, pleiotropia antagonista e soma usa-e-getta – la selezione naturale ha scarso “interesse” a mantenere la funzionalità delle cellule staminali nei decenni post-riproduttivi, quando la fitness individuale non è più direttamente legata alla riproduzione. Di conseguenza, mutazioni dannose che si manifestano solo in tarda età tendono ad accumularsi (mutazione-accumulazione) e geni che favoriscono la riproduzione precoce, pur avendo effetti negativi successivi, possono essere selezionati (pleiotropia antagonista). L’ingrigimento appare quindi più un “sottoprodotto” inevitabile dell’invecchiamento cellulare che un tratto selezionato per un vantaggio riproduttivo o sociale. 


L'albinismo

Oltre all’ingrigimento legato all’età, esiste un fenomeno genetico distinto chiamato albinismo, caratterizzato da un’assenza o da una forte riduzione della sintesi di melanina nei melanociti. Nell’albinismo oculocutaneo (OCA), mutazioni autosomiche recessive in geni chiave — come TYR (OCA1), OCA2, TYRP1 (OCA3) e altri — compromettono la produzione o la maturazione dei melanosomi, determinando capelli, pelle e iridi molto chiare, oltre a problemi visivi (fovea ipoplasica, nistagmo). Questa condizione è osservata in numerose specie animali oltre all’uomo, dagli uccelli ai mammiferi marini, dove analoghe mutazioni nei geni della via della melanogenesi producono individui “albinotici” dal mantello completamente bianco o dal piumaggio scarso di pigmento. 


Fonti:

National Institutes of Health – Aging melanocyte stem cells and gray hair:

Nature – Dedifferentiation maintains melanocyte stem cells in a dynamic niche:

ScienceDaily – For chimpanzees, salt and pepper hair not a marker of old age:

National Geographic – Why Animals Get Gray Hair, Too:

PLOS ONE / PMC – Three Streams for the Mechanism of Hair Graying:

Medical News Today – Hair turning gray? Scientists say a stem cell 'glitch' may be the cause:

PubMed – The evolutionary theories of aging revisited—a mini-review:

Biology Stack Exchange – Why has grey hair evolved?:

SciELO Brazil – “Albinism: epidemiology, genetics, cutaneous characterization, psychosocial factors”

NCBI Bookshelf – “Albinism” (StatPearls)

ScienceDirect – “Current and emerging treatments for albinism”

Orphanet Journal of Rare Diseases – “Oculocutaneous albinism”






L'igienismo: origini, fondamenti antiscientifici e teorie discutibili

 


L'igienismo naturale, noto anche come "igiene naturale" o "igienismo alimentare", è un movimento pseudoscientifico che promuove uno stile di vita e una dieta basati su presunti principi "naturali". Per comodità da qui in avanti lo chiameremo semplicemente "igienismo". Nonostante sia spesso presentato come una filosofia salutista, l'igienismo si fonda su teorie prive di basi scientifiche e, in alcuni casi, potenzialmente pericolose per la salute. L'igienismo non può essere considerato una pratica scientifica e non è una pratica medica, quindi un igienista naturale non può definirsi medico (da non confondere con il medico specialista di igiene). Questo articolo esplora le origini dell'igienismo, i suoi fondamenti antiscientifici e le teorie più discutibili che lo caratterizzano. 

Origini dell'igienismo 

L'igienismo affonda le sue radici nel XIX secolo, in un'epoca in cui la medicina moderna era ancora in fase di sviluppo e molte pratiche terapeutiche erano basate su teorie non verificate. A quei tempi, effettivamente, spesso era meglio non affidarsi alle pratiche mediche in voga; ecco perché sembrava che l'igienismo potesse essere una soluzione migliore della medicina ufficiale. 

  
Sylvester Graham
Uno dei principali esponenti fu Sylvester Graham (1794-1851), un predicatore religioso presbiteriano statunitense che promuoveva una dieta vegetariana, il consumo di farina integrale e l'astinenza da alcol e stimolanti. Graham credeva che tali pratiche potessero prevenire malattie e preservare la moralità. Per Graham, una dieta insalubre stimolava eccessivamente il desiderio sessuale, irritando così il corpo e provocando la malattia. Graham veniva spesso ridicolizzato dai media e dall'opinione pubblica per il suo indefesso fanatismo. Egli credeva che, aderendo alla sua dieta, le persone potessero premunirsi dai pensieri impuri e di conseguenza venisse loro bloccata, tra le altre cose, la pratica della masturbazione (che Graham pensava fosse un catalizzatore per la cecità che conduceva inevitabilmente alla follia). Morì all'età di 57 anni, nella sua casa a Northampton (Massachusetts).


Herbert M. Shelton

Successivamente, Herbert M. Shelton (1895-1985), considerato il padre dell'igienismo moderno, formalizzò molte delle idee del movimento nel suo libro "Human Life: Its Philosophy and Laws".  Shelton promuoveva il digiuno (cercando anche minuziosamente nella Bibbia tutti i riferimenti al digiuno), il crudismo (dieta basata esclusivamente su cibi crudi) e l'astensione da farmaci e trattamenti medici convenzionali. Da notare che neppure lui studiò medicina (ovviamente), bensì frequentò a New York le scuole americane di chiropratica e di naturopatia dove conseguì la laurea in naturopatia e letteratura naturopatica. 

Venne perfino multato e arrestato con l'accusa di violazione del Medical Practice Act, scontando 30 giorni di carcere al Rikers Island. Nel 1942 Shelton viene accusato di omicidio colposo per aver praticato un "trattamento a un essere umano senza un regolare attestato di professione medica" portando la paziente in questione (John Gillis) alla morte mediante il digiuno. 

Nel 1972, all'età di 77 anni, Shelton è colpito da una malattia neuromuscolare degenerativa (forse morbo di Parkinson) da cui non riuscirà mai a guarire.  

Nel 1978 un altro paziente muore in una delle sue scuole, Hal Conrad di 49 anni che, condannato dalla diagnosi medica a subire una colostomia e un'ileostomia, decide, invece, di digiunare in una clinica di Shelton. Hal Conrad muore per arresto cardiaco. 

Nel 1983 Shelton viene condannato, per l'accusa di omicidio colposo, al versamento della somma stabilita di 890.000 dollari, alla vedova di Hal Conrad. 

Shelton morirà nel 1985, senza essere stato capace di migliorare la propria salute. 

Fondamenti antiscientifici 

L'igienismo, come descritto, è una filosofia che si basa su principi che spesso contrastano con le evidenze scientifiche moderne. 

1. Il corpo è capace di autoguarigione 

L'idea che il corpo umano possa guarire autonomamente da qualsiasi malattia è una semplificazione eccessiva. Sebbene il corpo abbia meccanismi di riparazione e difesa (il sistema immunitario), molte patologie come cancro, diabete e infezioni batteriche, richiedono interventi medici specifici. 

2. Digiuno come cura universale 

Shelton e i suoi seguaci sostenevano che il digiuno potesse guarire quasi tutte le malattie. 

Il digiuno prolungato può avere effetti negativi sulla salute. 

La mancanza di nutrienti essenziali può portare a debolezza, anemia e danni agli organi. 

Il digiuno estremo può compromettere il sistema immunitario e la funzione muscolare. 

In casi estremi, il digiuno prolungato può portare a insufficienza d'organo e morte. 

Al contrario, il digiuno intermittente, se praticato sotto controllo medico, può avere benefici limitati per alcune condizioni (obesità o sindrome metabolica), ma non è una "cura universale". 

3. Rifiuto della medicina convenzionale 

L'igienismo considera i farmaci e i trattamenti medici come tossici e dannosi.

 

L'igienismo considera i farmaci e i trattamenti medici come tossici e dannosi.

Il rifiuto di terapie salvavita come vaccini, antibiotici o chemioterapia può avere conseguenze devastanti. 

Senza insulina o farmaci ipoglicemizzanti, il diabete di tipo 1 può portare a complicazioni fatali.

I vaccini hanno salvato decine di milioni di vite dalla loro scoperta. 

Gli antibiotici sono essenziali per trattare infezioni batteriche potenzialmente mortali. Prima della scoperta degli antibiotici, anche un semplice graffio poteva risultare letale a causa di un'infezione. 

La guarigione spontanea è estremamente rara per il cancro e la maggior parte dei casi richiede chemioterapia, radioterapia o chirurgia, oltre al cambio di alimentazione e stile di vita. La chemioterapia ha migliorato la sopravvivenza per molti tipi di cancro. 

Il rifiuto di queste terapie basato su credenze non scientifiche può portare a esiti negativi, come dimostrato da casi di pazienti che hanno rifiutato trattamenti convenzionali per malattie curabili e sono morti. 

4. Teoria della tossiemia 







L'igienismo tradizionale nega l'esistenza di batteri e virus. Di conseguenza ha inventato la teoria della tossiemia, che attribuisce tutte le malattie all'accumulo di tossine, ma questa ovviamente non ha basi scientifiche. Il corpo umano ha organi (fegato, reni, pelle) che eliminano naturalmente le sostanze tossiche. Non esistono prove che diete detox o digiuni migliorino questa funzione. 
Sebbene il concetto di disintossicazione sia popolare nella cultura "new age", non esiste alcuna evidenza scientifica che supporti l'idea che il corpo abbia bisogno di "disintossicarsi" attraverso diete specifiche o digiuni. 

Inoltre, molte "diete detox" possono essere dannose, causando squilibri elettrolitici o carenze nutrizionali. 

L'igienismo, nonostante le sue pretese di promuovere uno stile di vita "naturale" e salutare, è associato a diverse teorie che non solo mancano di fondamento scientifico, ma possono anche rivelarsi estremamente dannose per la salute. Di seguito, analizziamo in dettaglio alcune di queste teorie, evidenziandone i rischi e le contraddizioni con le conoscenze mediche e scientifiche attuali.

1. Il cibo cotto è tossico 

Molti igienisti sostengono che la cottura del cibo distrugga i nutrienti e produca sostanze tossiche, rendendo il cibo dannoso per l'organismo. Promuovono invece una dieta crudista, basata esclusivamente su alimenti non cotti.

Realtà scientifica:

È vero che alcuni nutrienti, come la vitamina C e alcune vitamine del gruppo B, possono essere parzialmente degradati durante la cottura. Tuttavia, altri nutrienti, come il licopene nei pomodori o i carotenoidi nelle carote, diventano più biodisponibili grazie alla cottura. 

La cottura uccide batteri e parassiti presenti negli alimenti, riducendo il rischio di infezioni alimentari. Ad esempio, la carne e il pesce crudi o poco cotti possono essere veicolo di Salmonella, Campylobacter, Escherichia coli, toxoplasmosi, Anisakis simplex, Taenia solium, Taenia saginata, ecc.  


Escherichia coli
Taenia solium
 

  

Anisakis simplex

 

La cottura rende molti alimenti più digeribili, come nel caso dei legumi, che contengono sostanze dannose per la salute come la fasina, che vengono rese innocue dalla cottura; o dei cereali integrali, che altrimenti potrebbero causare disturbi gastrointestinali. Anche i funghi è meglio evitare di consumarli crudi. Stessa sorte per i cavoli e i broccoli, con il consiglio di consumarli previa brevissima cottura. 

  

Le patate e le melanzane non devono mai essere mangiate crude perché risulterebbero tossiche a causa dell'alcaloide solanina


Una dieta crudista può portare a carenze nutrizionali, soprattutto di proteine, vitamina B12, ferro e zinco, e aumentare il rischio di infezioni alimentari. 

2. Il latte è dannoso 

L'igienismo condanna il consumo di latte e latticini, sostenendo che siano incompatibili con la fisiologia umana e che causino malattie come osteoporosi, cancro e disturbi digestivi. 

Realtà scientifica:

Il latte e i latticini sono fonti importanti di calcio, vitamina D, proteine e altri nutrienti essenziali per la salute delle ossa e dei muscoli. 

Mentre è vero che alcune persone sono intolleranti al lattosio, molte altre tollerano bene i latticini, soprattutto quelli fermentati come lo yogurt. 

Non esiste alcuna evidenza scientifica che il latte causi osteoporosi. Al contrario, un adeguato apporto di calcio e vitamina D è fondamentale per prevenire questa condizione. 

Eliminare i latticini senza sostituirli con fonti alternative di calcio e vitamina D può aumentare il rischio di osteoporosi e fratture ossee, soprattutto nelle donne in menopausa. 

3. Le vaccinazioni sono inutili o dannose 

Molti igienisti sostengono che i vaccini siano inutili, inefficaci o addirittura dannosi, attribuendo loro effetti collaterali gravi come l'autismo (una teoria ampiamente smentita) o altre malattie croniche. 

Realtà scientifica: 

I vaccini hanno ridotto o eliminato malattie mortali come il vaiolo, la poliomielite e il morbillo, salvando milioni di vite ogni anno. 

Effetti devastanti del Vaiolo

 I vaccini sono sottoposti a rigorosi test di sicurezza prima di essere approvati. Gli effetti collaterali gravi sono estremamente rari, mentre i benefici superano di gran lunga i rischi.  

 La vaccinazione di massa protegge non solo gli individui vaccinati, ma anche coloro che non possono vaccinarsi per motivi medici, come i neonati o le persone con immunodeficienze. 

La diffusione di disinformazione sui vaccini contribuisce al calo delle coperture vaccinali, aumentando il rischio di epidemie di malattie prevenibili. Ad esempio, il ritorno del morbillo in alcuni Paesi è direttamente collegato al movimento anti-vaccini. 

4. Il cancro può essere curato con il digiuno 

Alcuni igienisti sostengono che il digiuno possa "affamare" le cellule tumorali, portando alla loro morte e alla guarigione dal cancro.

Realtà scientifica:

Le cellule tumorali sono in grado di adattarsi a condizioni di scarsità di nutrienti, sfruttando vie metaboliche alternative per sopravvivere. Il digiuno non le "affama" in modo selettivo.  

Il digiuno prolungato può portare a debilitazione fisica, perdita di massa muscolare, carenze nutrizionali e compromissione del sistema immunitario, rendendo il paziente più vulnerabile alle infezioni e meno in grado di tollerare trattamenti come la chemioterapia. 

La chirurgia, la radioterapia, la chemioterapia e le terapie mirate sono i trattamenti basati su evidenze scientifiche per il cancro. Rinunciare a queste terapie in favore del digiuno può ridurre le possibilità di sopravvivenza. 

Pazienti che seguono queste teorie possono ritardare o abbandonare trattamenti efficaci, con conseguenze potenzialmente letali. Inoltre, il digiuno prolungato può aggravare le condizioni di salute generali, peggiorando la prognosi.

L'igienismo, nonostante sia presentato come una filosofia salutista, si basa su teorie pseudoscientifiche e può rappresentare un serio rischio per la salute. Il rifiuto della medicina convenzionale, la promozione di pratiche come il digiuno prolungato e la diffusione di disinformazione sui vaccini sono aspetti particolarmente preoccupanti. È fondamentale che le scelte riguardanti la salute siano basate su evidenze scientifiche e non su ideologie prive di fondamento. Bisogna diffidare di approcci che rifiutano la medicina basata su evidenze e promuovono pratiche non verificate. La salute è un bene troppo prezioso per essere affidata a ideologie pseudoscientifiche. 

Un vero medico, serio e rispettoso delle evidenze scientifiche, difficilmente si definirebbe "igienista naturale" nel senso stretto del termine, poiché molti principi dell'igienismo sono in contrasto con le conoscenze mediche moderne e le pratiche basate su prove scientifiche (evidence-based medicine). 

L'igienismo spesso rifiuta terapie salvavita come vaccini, antibiotici e chemioterapia, che sono invece pilastri della medicina moderna. Un medico serio non potrebbe sostenere un approccio che mette a rischio la vita dei pazienti. Ad esempio un vero medico non si dichiarerà mai "no-vax". 

Concetti come la "tossiemia" o l'idea che il digiuno possa curare qualsiasi malattia non sono supportati da evidenze scientifiche. Un medico basato sull'evidence-based medicine non potrebbe aderire a tali teorie. 

Promuovere il digiuno prolungato o il rifiuto di terapie efficaci può portare a conseguenze gravi, come carenze nutrizionali, peggioramento delle condizioni di salute o persino la morte. 


Più che il digiuno è meglio un'alimentazione sana ed equilibrata

Tuttavia, alcuni principi igienisti potrebbero essere condivisibili. 

Alcuni aspetti dell'igienismo, se interpretati in modo equilibrato, possono essere compatibili con la medicina moderna. Il problema è che accanto a questi buoni suggerimenti se ne trovano poi altri del tutto deleteri per il nostro benessere, nonché contrari ad alcuni risultati ormai indiscutibili della scienza medica.

Stile di vita sano: 

   L'importanza di una dieta equilibrata, dell'esercizio fisico e della riduzione dello stress è ampiamente riconosciuta dalla medicina. 


Prevenzione: 

L'igienismo enfatizza la prevenzione delle malattie attraverso scelte di vita salutari (evitare alcoolici, fumo, cibi non sani, vita sedentaria, stress) un principio condiviso dalla medicina moderna. 



Evitare i farmaci non necessari: 

L'igienismo critica l'uso eccessivo di farmaci, un tema che la medicina moderna affronta con il concetto di "appropriatezza terapeutica". 


Un medico deve promuove uno stile di vita sano, la prevenzione e un uso razionale dei farmaci. 


La medicina promuove uno stile di vita sano

Un medico serio aderisce a questi principi. Tuttavia, sarebbe più corretto definirlo un medico che segue le linee guida basate sull'evidence-based medicine, piuttosto che un igienista naturale, per evitare confusione con le teorie antiscientifiche associate all'igienismo tradizionale. 


Fonti 

Nessuna correlazione tra vaccini e autismo 

National Center for Biotechnology Information (NCBI)

World Health Organization (WHO) 

New England Journal of Medicine 

Centers for Disease Control and Prevention

Mayo Clinic - Risks of Fasting

Harvard T.H. Chan School of Public Health - Nutrition 

Harvard Medical School - Healthy Lifestyle

British Dietetic Association - Detox Diets

National Eating Disorders Association

American Diabetes Association 

World Health Organization - Vaccines

American Cancer Society

Journal of the National Cancer Institute

Science-Based Medicine 

World Health Organization - Rational Use of Medicines 



L’intelligenza autocosciente. Etica e prospettiva di una mente artificiale consapevole

  Immagina un’intelligenza artificiale che ricorda ogni interazione, capisce il contesto, percepisce il mondo e ha una rappresentazione di s...