Negli ultimi quindici anni, lo studio del DNA antico (aDNA) ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’aspetto e della variabilità delle popolazioni mesolitiche europee, composte ancora da cacciatori-raccoglitori nomadi. 

Il Mesolitico (dal greco mesos, "medio", e lithos, "pietra") è un periodo della preistoria umana collocato cronologicamente tra il Paleolitico Superiore (o Epipaleolitico in alcune regioni) e il Neolitico. Rappresenta una fase cruciale di adattamento caratterizzata da trasformazioni ambientali radicali e conseguenti risposte socio-economiche e tecnologiche da parte delle società di cacciatori-raccoglitori. 

Coincide con la fine dell'Ultimo Massimo Glaciale (circa 20.000 anni fa) e l'inizio dell'Olocene (circa 11.700 anni fa). È segnato dal drastico riscaldamento climatico, dal ritiro delle calotte glaciali, dall'innalzamento del livello del mare e dalla trasformazione degli ecosistemi: le steppe aperte del Tardo Glaciale lasciano il posto a foreste decidue dense (quercia, nocciolo, olmo, tiglio) in Europa e ad altri biomi complessi a livello globale. Questi cambiamenti hanno un impatto profondo sulla fauna disponibile (declino dei grandi erbivori migratori come renne e mammut, aumento di specie forestali come cervo, cinghiale, bovini selvatici). 

Slatkin & Racimo, “Ancient DNA and human history”, 

https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.1524306113

Keiko Kitagawa, Marie‑Anne Julien & Oleksandra Krotova, "Glacial and post‑glacial adaptations of hunter‑gatherers: Investigating the late Upper Paleolithic and Mesolithic subsistence strategies in the southern steppe of Eastern Europe Quaternary International", 465 (2017), pp. 302–317.

DOI: https://doi.org/10.1016/j.quaint.2017.01.005


Le date variano significativamente per regione, riflettendo le diverse velocità dei cambiamenti climatici e culturali:

Europa Nord-Occidentale: Inizia circa 11.700 anni fa (inizio Olocene) e termina con l'arrivo dell'agricoltura (tra 8.000 e 5.500 anni fa, a seconda dell'area).

Medio Oriente: Sovrapposto parzialmente al periodo Natufiano (spesso considerato Epipaleolitico Finale o "Proto-Neolitico"), con transizione più precoce verso il Neolitico.

Altre Regioni: Periodizzazioni analoghe sono riconosciute in Asia, Africa e Americhe, spesso con termini specifici ("Periodo Arcaico" nelle Americhe).

Il Mesolitico non è un semplice "intermezzo", ma un periodo dinamico di profondo riadattamento culturale ed economico delle società di cacciatori-raccoglitori alle drammatiche trasformazioni ambientali post-glaciali. È caratterizzato da innovazioni tecnologiche chiave (microliti), diversificazione e intensificazione dello sfruttamento delle risorse (economia ad ampio spettro), tendenze verso una maggiore stabilità insediativa e complessità sociale e rituale, che in molte regioni hanno posto le basi per le successive transizioni neolitiche. 

Erlend K. Jørgensen, Petro Pesonen & Miikka Tallavaara

"Climatic changes cause synchronous population dynamics and adaptive strategies among coastal hunter‑gatherers in Holocene northern Europe Quaternary Research", 108 (2020), pp. 48–63.

DOI: https://doi.org/10.1017/qua.2019.86

Zeder M. A. "The Origins of Agriculture in the Near East". Current Anthropology 52 (Supplement 4), S221–S235 (2011).

DOI: https://doi.org/10.1086/659307

Ma che aspetto avevano questi cacciatori-raccoglitori che vivevano su quello che sarebbe divenuto poi il territorio europeo?

Contrariamente alla visione tradizionale di cacciatori-raccoglitori pallidi, le analisi genomiche hanno rivelato individui con pelle molto scura e occhi azzurri, dimostrando come le caratteristiche fenotipiche si siano evolute in modo complesso e differenziato. 

Durante il Mesolitico europeo (tra 11.700 e 5.500 anni fa), le popolazioni di cacciatori‑raccoglitori nomadi mostravano un profilo fenotipico sorprendentemente eterogeneo, con frequenti combinazioni di pelle scura fin quasi al nero e occhi chiari. 

Da cosa è determinato il colore della pelle e degli occhi? 

I colori della pelle, degli occhi e dei capelli sono fenotipi complessi con eredità poligenica. Tutti dipendono dalle diverse quantità, tipo e distribuzione di due pigmenti, eumelanina (marrone-rosso) e feomelanina (marrone-giallo), prodotti dai melanociti umani. Le iridi blu e verdi non sono dovute a pigmenti oculari aggiuntivi, ma alla dispersione della luce causata dalla densità cellulare variabile dello stroma corneale (è la componente principale della cornea e costituisce circa il 90% del suo spessore conferendole  forma e resistenza ed è formato principalmente da acqua e collagene). 

Sturm & Larsson, “Genetics of human iris colour and patterns”, Pigment Cell Melanoma Res. 2009. https://doi.org/10.1111/j.1755-148X.2009.00606.x

A cosa è dovuta la differente pigmentazione della pelle? 

Non vi è dubbio che l'epidermide dei primi ominini fosse ricoperta di peli e leggermente pigmentata. L'esposizione alla luce solare induce la fotolisi (degradazione) del folato, una molecola essenziale nella sintesi del DNA e nella proliferazione cellulare; poiché la protezione dei peli è andata perduta nel corso dell'evoluzione, vi sono prove di una selezione selettiva a favore di alleli che renderebbero la pelle più scura. Al contrario, i colori chiari della pelle promuovono la sintesi di vitamina D controllata fotochimicamente. Quando il genere Homo si diffuse verso nord dall'Africa all'Eurasia, il regime di selezione cambiò e emersero fenotipi più chiari. In entrambe le fasi la radiazione UV sembra l'agente selettivo più probabile. 

Con la migrazione degli ominidi fuori dai tropici, si sono evoluti vari gradi di depigmentazione per consentire la sintesi di previtamina D3 indotta dai raggi UVB. Il colore più chiaro della pelle femminile potrebbe essere necessario per consentire la sintesi di quantità relativamente maggiori di vitamina D3 necessarie durante la gravidanza e l'allattamento. 

I geni coinvolti nella pigmentazione della pelle sono una settantina. 

Jones et al., “The Vitamin D–Folate Hypothesis as an Evolutionary Model for Skin Pigmentation”, Nutrients 2018. https://doi.org/10.3390/nu10050554

Lucock et al., “Biophysical evidence to support and extend the vitamin D–folate hypothesis”, Am. J. Hum. Biol. 2022. https://doi.org/10.1002/ajhb.23667

Nina G. Jablonski, George Chaplin, "The evolution of human skin coloration", Journal of Human Evolution, Volume 39, Issue 1, 2000, Pages 57-106, ISSN 0047-2484, https://doi.org/10.1006/jhev.2000.0403


Il Genoma Mesolitico di La Braña (Spagna) 

Uno degli studi più emblematici è quello condotto da Carles Lalueza‑Fox et al., che ha sequenziato completamente il genoma di un individuo maschile rinvenuto nel 2006 nel sito di La Braña‑Arintero (León, Spagna), datato a circa 7.000 anni fa. I risultati hanno mostrato che l’individuo portava “alleli ancestrali” nei principali loci associati alla pigmentazione cutanea, suggerendo una pelle molto scura, probabilmente più scura rispetto alla media dei moderni Mediterranei.

Presentava anche la variante rs12913832 in HERC2/OCA2, responsabile degli occhi azzurri, già diffusa tra i cacciatori‑raccoglitori pre‑agricoli.

Erano presenti numerosi alleli “derivati” legati alla resistenza a patogeni, indicativi di pressioni selettive pre‑agricole su geni del sistema immunitario. 

Lalueza‑Fox et al., “Derived immune and ancestral pigmentation alleles in a 7,000‑year‑old Mesolithic European”, Nature 2014. https://doi.org/10.1038/nature12960

 

La ragazza di Syltholm

Lola, la ragazza di Syltholm, una danese del neolitico europeo vissuta 5.700 anni fa sull’isola di Syltholm, in Danimarca, nel periodo di transizione da caccia-raccolta ad agricoltura, ci rivela il suo genoma da un "chewing gum" un piccolo pezzo di pece di betulla (vedi foto) che aveva masticato. 


  Il "chewing gum" di pece di betulla © Tom Bjorklund 

Lola era anche intollerante al lattosio, un’osservazione che conferma la teoria secondo la quale la presenza della lattasi negli adulti è avvenuta abbastanza recentemente in Europa, dopo l’avvento della produzione casearia. 

I ricercatori, guidati da Hannes Schroeder dell’Università di Copenaghen, nel 2019 hanno pubblicato un articolo su Nature in cui hanno spiegato:

"Per predire il colore dei suoi capelli, occhi e pelle abbiamo imputato i genotipi per 41 SNP inclusi nel sistema HIrisPlex-S e abbiamo scoperto che probabilmente aveva pelle scura, capelli castano scuro e occhi azzurri". 

Schroeder et al., “Origins and genetic legacy of prehistoric dogs”, Nature Communications 2019. https://doi.org/10.1038/s41467-019-13549-9 


Cheddar Man

L'antico DNA dell'Uomo di Cheddar, uno scheletro del mesolitico scoperto nel 1903 nella grotta di Gough a Cheddar Gorge, nel Somerset, ha aiutato gli scienziati del Natural History Museum a tracciare un ritratto di uno degli esseri umani moderni più antichi della Gran Bretagna, e crearne un modello realistico con la collaborazione degli artisti olandesi Alfons e Adrie Kennis.

L'uomo di Cheddar visse circa 10.000 anni fa ed è il più antico scheletro quasi completo della nostra specie, Homo sapiens, mai rinvenuto in Gran Bretagna.

La ricerca sul DNA antico estratto dallo scheletro ha aiutato gli scienziati a ricostruire l'aspetto dell'Uomo di Cheddar (vedi foto) e della sua vita nella Britannia mesolitica.

Cheddar Man risulta portatore di un fenotipo con pelle “dark to black” (da scuro a nero) e occhi azzurri, confermato da analisi genomiche di tipo forense sul DNA estratto dallo scheletro completo.

La variante rs12913832 (HERC2/OCA2) si ritrova già in più individui mesolitici, suggerendo che la predisposizione agli occhi chiari si diffuse tra i cacciatori‑raccoglitori circa nel 10.000 a.C., prima dell’avvento dell’agricoltura. 

Natural History Museum, Cheddar Man FAQ, UCL & NHM, 2018.

https://www.nhm.ac.uk/our-science/research/projects/human-adaptation-diet-disease/cheddar-man-faq.html 


Mos'anne la “Donna di Margaux” 

Recentemente un’équipe dell’Università di Ghent, anch'essi in collaborazione con gli artisti olandesi Alfons e Adrie Kennis, ha ricostruito il volto di una donna vissuta circa 10.500 anni fa nella regione della Meuse (Belgio). Basandosi su DNA estratto da uno dei resti ossei trovati nelle grotte di Margaux, nel 1988, è emerso che aveva occhi chiari (probabilmente azzurri o verdi) e la pelle di tono medio‑scuro rispetto allo standard attuale europeo.

Caratteristiche craniofacciali combinate con dati anatomici per un ritratto realistico (vedi foto), confermano la variabilità fenotipica già a inizio Mesolitico. 

Van Neer et al., “Face to Face with Prehistory: Mos’anne”, LiveScience 2025. https://www.livescience.com/archaeology/see-the-stunning-reconstruction-of-a-stone-age-woman-who-lived-10-500-years-ago-in-belgium 


Il 12 febbraio 2025 un'équipe italiana dell’Università di Ferrara, di cui fa parte anche il genetista Guido Barbujani, ha pubblicato in pre-print su "BioRXiv" l'articolo "Inference of human pigmentation from ancient DNA by genotype likelihood". Il team di ricerca, guidato da Silvia Perretti ha sequenziato il DNA antico (aDNA) estratto da 348 individui rinvenuti in siti sparsi tra la Penisola Iberica, la Scandinavia, le Isole Britanniche e l’Europa centrale, coprendo un arco cronologico che va dal Paleolitico superiore (ca. 45.000 a.C.) fino all’Età del Ferro (ca. 1.500 a.C.).

Hanno utilizzato sequenziamento shotgun ad alta copertura per mappare le regioni genomiche coinvolte nella pigmentazione cutanea (in particolare i loci SLC24A5 e SLC45A2) e in quella degli occhi e dei capelli.

Il confronto diretto tra genotipi antichi e moderni ha permesso di stimare le frequenze alleliche nel tempo, grazie a modelli di analisi bayesiana e metodi probabilistici di imputazione. 

Nei Mesolitico–Neolitico (10.000–4.500 a C.) più del 90% degli individui portava le varianti ancestrali di SLC24A5 e SLC45A2, associate a pelle scura e olivastra.

Anche tra i primi agricoltori neolitici anatolici (ca. 7.000–6.000 a.C.) la pigmentazione rimaneva scura in buona parte dei campioni, sebbene con lieve aumento di varianti “chiare” rispetto ai cacciatori‑raccoglitori precedenti.

Le versioni “light skin” (pelle chiara) di SLC24A5 (allele A111T) e di SLC45A2 erano praticamente assenti o molto rare fino al Bronzo antico (4.500–3.000 a.C.).

Il loro incremento importante coincide con le migrazioni dei pastori delle steppe (cultura Yamnaya, ca. 3.300–2.500 a.C.) e con l’accresciuta selezione per il metabolismo della vitamina D alle alte latitudini; tuttavia, solo dopo il 2.000 a.C. questi alleli raggiungono frequenze comparabili a quelle odierne nelle popolazioni europee occidentali e settentrionali.

Nell'Europa meridionale e orientale: la pigmentazione scura persiste più a lungo — fino all’Età del Ferro (1.500–1.000 a.C.) circa il 60–70% dei campioni mostrava ancora alleli ancestrali. 

Nell'Europa settentrionale e centrale: aumento progressivo di alleli light già nel Bronzo medio (3.000–2.000 a.C.), ma con punte di pelle scura residuale fino all'Età del Ferro. 

Studi sul DNA antico datano il picco di frequenza di alleli della pelle chiara tra la fine del Neolitico e l’Età del Bronzo (circa 2.000 a.C.), quando la pelle chiara diventa ormai dominante nelle popolazioni europee occidentali. 

Allentoft, M., Sikora, M., Sjögren, KG. et al. Genomica di popolazione dell'Eurasia dell'età del bronzo. Nature 522 , pp. 167–172 (2015). https://doi.org/10.1038/nature14507

Nei millenni pre‑agricoli, una dieta ricca di pesci grassi, molluschi e carni di mammiferi marini forniva abbondante vitamina D, attenuando la necessità di pelle chiara per la fotoproduzione cutanea di questa vitamina.

Con l’insediamento agricolo, il maggior consumo di cereali (poveri di vitamina D) ha creato una pressione selettiva crescente a favore degli alleli che migliorano l’assorbimento UV per la sintesi di vitamina D, soprattutto alle latitudini nordiche.

L’articolo ribalta l’idea tradizionale di una pelle chiara “innata” per i primi europei: essa appare come un adattamento tardivo, maturato in modo graduale tra il Bronzo e il Ferro (3.000–1.000 a.C.) grazie all’interazione tra migrazioni, selezione ambientale e cambiamenti dietetici. Il gene SLC24A5 (allele A111T) della pelle chiara, appare in popolazioni anatoliche già nel 9.000 a.C., ma resta raro in Europa occidentale fino al periodo Calcolitico (circa 4.500 a.C.). In questo scenario, la pigmentazione scura si conferma il fenotipo ancestrale prevalente per oltre 40.000 anni, fino al tardo Neolitico–Calcolitico. 

Perretti et al., “Inference of human pigmentation from ancient DNA by genotype likelihood”, bioRxiv 2025. https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2025.01.29.635495v2.full 


Timeline Sintetica

10.500–7.000 a.C.: ampio spettro fenotipico tra cacciatori‑raccoglitori (pelle molto scura + occhi azzurri).

6.500 a.C.: arrivo dei primi agricoltori anatolici, primi alleli “light skin” (pelle chiara).

5.000–3.000 a.C.: ondata dei pastori delle steppe (Yamnaya), accelerazione della diffusione di SLC24A5/SLC45A2.

2.000 a.C. – oggi: affermazione della pelle chiara predominante nel panorama europeo moderno.


Questo complesso intreccio di migrazioni, pressioni selettive e variazioni dietetiche spiega perché la pelle chiara europea sia un tratto relativamente “giovane”, mentre la variante per gli occhi chiari affonda le sue radici nei primi cacciatori‑raccoglitori mesolitici. 

La colorazione della pelle negli esseri umani è adattiva e labile. I livelli di pigmentazione della pelle sono cambiati più di una volta nel corso dell'evoluzione umana. Per questo motivo, la colorazione della pelle non ha alcun valore nel determinare le relazioni filogenetiche tra i gruppi umani moderni. 


Credits immagini: 

Uomo di La Braña - Ana Bonilla Alonso

Lola, la ragazza di Syltholm - Tom Björklund 

Cheddar Man - Tom Barnes/Channel 4 

Mos'anne, la Donna di Margaux - Kennis & Kennis Ricostruzioni


 

 

Nel cuore fumante di Hiroshima e Nagasaki, dove l’aria si fece improvvisamente incandescente e il fragore dell’esplosione sembrò inghiottire il respiro del mondo, alcuni silenziosi testimoni vegetali resistettero alla furia distruttiva dell'atomica: gli Hibakujumoku, letteralmente «alberi-bombardati», che sfidarono la furia atomica per risorgere dalle proprie radici e dai loro tessuti danneggiati, incarnando un coraggio silenzioso e radicato nella terra stessa. 

Anche a pochi centinaia di metri dall’ipocentro — dove il calore iniziale superò di quaranta volte l’irraggiamento solare e le dosi di radiazione raggiunsero i 240 Gray (Gy) — alcune piante, private dei rami e in parte della corteccia, trovarono la forza di germogliare ancora. Per un essere umano adulto sano, la dose che causa il decesso del 50% dei soggetti entro 60 giorni (LD₅₀/₆₀) è di circa 4 Gy, con stime che oscillano tra 3 e 5 Gy in assenza di trattamenti medici avanzati.

Le analisi dendrocronologiche e i rilievi sul campo condotti da Barnaby e Holdstock indicano come furono soprattutto le specie a latifoglia, dotate di riserva di nutrienti nei tessuti sotterranei, a sopravvivere e a mostrare rapida rigenerazione nei mesi successivi all’esplosione.

Le ricerche successive, raccolte in database internazionali come quello del Programma delle Nazioni Unite per la Formazione (UNITAR), hanno censito oggi oltre 160 esemplari sopravvissuti ad Hiroshima e una cinquantina a Nagasaki, testimoni viventi di un evento che ha mutato per sempre la storia umana. Tra questi, il Salice piangente (Salix babylonica) e la Robinia (Robinia pseudoacacia) primeggiano per longevità, mentre l’Oleandro (Nerium indicum) — nominato fiore ufficiale di Hiroshima — incarna la tenacia nella capacità di riemettere gemme da corteccia e radici compromesse. 


Ecco un elenco (non esaustivo) delle specie identificate come Hibakujumoku sui luoghi devastati dall'atomica:

Salice piangente (Salix babylonica)

Robinia (Robinia pseudoacacia)

Albero dei rosari (Melia azedarach var. japonica)

Fico (Ficus sp.)

Bambù (tribù Bambuseae)

Azalea (Rhododendron sp.)

Palma di Fortune (Trachycarpus fortunei)

Oleandro (Nerium indicum)

Euonymus del Giappone (Euonymus japonicus)

Agrifoglio giapponese (Ilex rotunda)

Aralia giapponese (Fatsia japonica)

Nettle tree (Celtis sinensis var. japonica)

Albero della canfora (Cinnamomum camphora)

Elaeagnus pungens (Elaeagnus pungens)

Cachi giapponese (Diospyros kaki)

Eucalipto (Eucalyptus melliodora)

Salice a grandi foglie (Salix chaenomeloides)

Catalpa meridionale (Catalpa bignonioides)

Cycas (Cycas revoluta)

Peonia albero (Paeonia suffruticosa)

Neolitsea sericea (Neolitsea sericea)

Ciliegio Yoshino (Prunus × yedoensis)

Mirto crespo (Lagerstroemia indica)

Ginkgo (Ginkgo biloba)

Platano orientale (Platanus orientalis)

Albero parasole cinese (Firmiana simplex)

Pino nero giapponese (Pinus thunbergii)

Muku tree (Aphananthe aspera)

Giuggiolo (Ziziphus jujuba)

Prunus mume (albicocco giapponese) var. purpurea

Amanatsu (Citrus natsudaidai)

Tabunoki (Persea thunbergii)

Tiglio giapponese (Tilia miqueliana)

Camelia giapponese (Camellia japonica)

Cotogno giapponese (Chaenomeles speciosa)

Ginepro cinese (Juniperus chinensis)

Giglio di mare (Crinum sp.)

Elenco derivato dal database UNITAR “Hibaku Jumoku: Atomic‑Bombed Trees of Hiroshima” e da Green Legacy Hiroshima. 

https://docslib.org/doc/5049948/database-of-hibaku-jumoku-atomic-bombed-trees-of-hiroshima


Dal punto di vista botanico, la sopravvivenza di queste piante dipende da due fattori chiave: lo spessore della corteccia e la modularità del sistema vascolare, che consente al legno profondo di preservare tessuti meristematici vitali anche in seguito a danni superficiali. Queste caratteristiche, evolutesi per far fronte a incendi e predazioni, si rivelarono decisive anche contro la guerra nucleare, mettendo in luce l’ingegneria naturale alla base della resilienza vegetale.

Negli ultimi anni, l’associazione Green Legacy Hiroshima ha raccolto semi e talee dagli Hibakujumoku per diffondere nel mondo non solo nuovi alberi, ma un messaggio di pace e speranza. Dai giardini di Seattle alle aule delle scuole australiane, giovani piantine di Ginkgo biloba, Cinnamomum camphora e Aphananthe aspera portano con sé un frammento di storia e un invito a coltivare la memoria condivisa dell’umanità.

La letteratura scientifica che indaga gli Hibakujumoku, integrando metodologie di radiobiologia, ecologia urbana e storia delle tecnologie belliche, ci ricorda che la vita, anche schiantata dalla violenza più estrema, può rinascere «tra le rovine», dando voce alle foglie e ai tronchi in un racconto che mai si deve dimenticare.

Il termine Hibakujumoku (被爆樹木), letteralmente “alberi colpiti dalla bomba”, è in realtà molto più di una semplice etichetta botanica: è una scelta «politica» e memoriale che riflette il ruolo unico di questi organismi nella coscienza collettiva e nella storia del Novecento. 

Ecco perché non ci si limitò a definirli “sopravvissuti”.

La parola giapponese hibaku (被爆) significa “essere colpito da una bomba atomica”: mette in chiaro che l’albero non ha soltanto vissuto, ma ha subito direttamente l’impatto e le radiazioni. 

“Sopravvissuto” è un termine generico, che non richiama immediatamente la specificità di Hiroshima e Nagasaki né la straordinarietà della loro esperienza di esposizione a dosi letali di calore e radiazioni.

Alberi come testimoni viventi. 

Definirli Hibakujumoku li trasforma da semplici superstiti a testimoni (“witness trees”), custodi di memoria: ogni anello di crescita porta traccia dell’anno zero dell’era atomica.

In molte culture, gli alberi sono simboli di continuità e resilienza; chiamarli in modo specifico enfatizza il loro ruolo di ponte tra passato e futuro, un monito vivo contro l’uso delle armi nucleari.

Distinzione rispetto all’umano “sopravvissuto”. 

Le persone sopravvissute all’esplosione – gli hibakusha (被爆者) – hanno subito danni biologici e sociali di enorme portata. Per rispetto della loro sofferenza, il termine “sopravvissuto” è riservato a loro in ambito medico, legale e di indennizzo.

Gli alberi mancano di coscienza e diritti sociali: chiamarli “sopravvissuti” rischierebbe di equiparare una sofferenza umana, con tutte le sue implicazioni etiche, a un fenomeno puramente biologico.

Precisione scientifica e culturale. 

Nella dendrocronologia e nella radiobiologia si preferisce un toponimo che includa il tipo di trauma subito: “Hibakujumoku” definisce sia il meccanismo di danno (esplosione atomica) sia la testimonianza che l’albero fornisce a posteriori.

La terminologia giapponese rispetta la sensibilità culturale locale, valorizzando la narrativa di pace e rinascita attorno a questi green monuments.

Proprio perché non sono “solo sopravvissuti”, ma “alberi colpiti” che hanno rigenerato vita laddove imperava il nulla, il termine Hibakujumoku diventa esso stesso un messaggio di resilienza e di pace.

Associandoli in modo esplicito agli eventi atomici, ogni volta che se ne parla si rinnova l’impegno a non ripetere quell’orrore.

In sintesi, Hibakujumoku non è un eufemismo né un puro tecnicismo: è la denominazione che meglio cattura la doppia valenza di testimonianza storica e miracolosa rinascita biologica, distinguendo il loro destino da quello, sofferto e prevenuto dalla sofferenza umana, dei “sopravvissuti”. 

In ambito ecologico e botanico il termine resilienza è non solo appropriato, ma anzi essenziale per descrivere la fenomenologia degli Hibakujumoku. 

Il concetto classico, introdotto da C. S. Holling, definisce la resilienza come «la capacità di un sistema di assorbire disturbi e riorganizzarsi mantenendo le stesse funzioni, strutture, identità e feedback» (Holling, 1973). Gli Hibakujumoku, pur sottoposti a forze distruttive estreme (calore, pressione e radiazioni), hanno rigenerato tessuti vitali e ripristinato la propria architettura vascolare, ricadendo perfettamente in questa definizione.

Resilienza vs. resistenza

– Resistenza indica la capacità di evitare danno: molti alberi morirono istantaneamente.

– Resilienza indica invece la capacità di recupero dopo il danno: gli Hibakujumoku hanno perso rami e corteccia, ma hanno attivato meccanismi di rigenerazione (cambio di accrescimento nei meristemi, formazione di germogli epicormici). Questo è il cuore della resilienza vegetale (Gratani, 2014).


I processi di resilienza includono:

Ridirezionamento del flusso di nutrienti dai tessuti sani verso i meristemi sopravvissuti;

Attivazione di geni di riparazione del DNA e di compartimenti radicali meno esposti alla radiazione;

Produzione di composti antiossidanti che limitano il danno ossidativo indotto dai radicali liberi generati dalle radiazioni.

Questi adattamenti, ampiamente studiati in specie di latifoglie sopravvissute ai danni da incendio e gelo, sono speculari a quanto osservato negli Hibakujumoku.

Usare “resiliente” per questi alberi trasmette non solo l’aspetto biologico, ma anche il messaggio simbolico di “ripresa” dopo la catastrofe, rafforzando l’eredità di pace che Green Legacy Hiroshima vuole diffondere.

Resiliente descrive esattamente la capacità degli Hibakujumoku di superare un evento estremo, rigenerando funzioni e struttura: è un termine evocativo della loro valenza simbolica. 


Fonti: 

Y. D. Bar-Ness, Hibaku: The Witness Trees of Hiroshima, UNITAR, 2014. 

https://unitar.org/sites/default/files/uploads/hibaku_trees_of_hiroshima_-by_yd_bar-ness_-_asian_geographic_-_nov14.pdf


https://it.scribd.com/document/374022756/ICRP-103-the-2007-Recommendations-of-the-Interenational-Commission-on-Radiological-Protection


M. Petersen, M. Conti, “Species and location of trees determined the survival of trees after war in both cities”, ResearchGate, 2016. 

https://www.researchgate.net/publication/313700535_Hibaku_trees_of_Hiroshima


“Saplings Grown From Seeds of Trees That Survived Hiroshima Bombing Model Resilience”, Davidson College News, 25 aprile 2024. 

https://www.davidson.edu/news/2024/04/25/seeds-change-saplings-grown-seeds-trees-survived-hiroshima-bombing-model-resilience


Green Legacy Hiroshima, “Greening Atomic Bomb Survivor Trees: Ecological Literacy”, Asian Network Exchange, 2019. 

https://www.asianetworkexchange.org/article/id/7865/


Holling, C. S. (1973). Resilience and Stability of Ecological Systems. Annual Review of Ecology and Systematics, 4, 1–23.


Gratani, L. (2014). Plant phenotypic plasticity in response to environmental factors. Advances in Botanical Research, 68, 95–120.


Barnes, B. V., Zak, D. R., Denton, S. R., & Spurr, S. H. (2005). Forest Ecology (4th ed.). Wiley.


    Negli ultimi quindici anni, lo studio del DNA antico (aDNA) ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’aspetto e della variabilità del...